martedì 1 febbraio 2011

Tunisia ed Egitto, il web fa la rivoluzione?

Il fermento di umanità connessa che osserviamo in questi giorni, in Tunisia e in Egitto, ha la tragicità e il coraggio di chi vuole trasformare la propria voce pubblicata in opinione pubblica. Una opinione che non si fonda più nell’immaginario pubblico costruito dalla stampa e dalla televisione di un Paese che, probabilmente, non riesce a dare visibilità a un dissenso diffuso, che non riesce a rappresentare un malessere condiviso. Allora i cittadini provano a rappresentarlo da soli e ad auto-organizzarsi attorno alle possibilità che la rete, oggi, rende disponibili.
La rivoluzione non la fa il web. La fanno le persone, ci ricorda Jillian C. York, perché il web non è garanzia di partecipazione e azione: «I also think it’s a bit irresponsible of Western analysts to start pontificating on the relevance of social media to the Tunisian uprising without talking to Tunisians». Come twitta Alaa Abd El Fattah: «hey frigging american analysts how about we let tunisians, who actually lived what happened decide how relevant twitter and wikileaks where?». Eppure non possiamo negare che «non c’è tentativo di rivoluzione che non sia stato accompagnato da un significativo tasso di conversazione sulla rete e nello specifico su siti di social network come Facebook e Twitter». Sarà per questo che il governo egiziano nella notte tra il 27 e il 28 gennaio ha chiuso l’accesso a tutta Internet e sconnesso la telefonia cellulare, dopo aver oscurato e censurato martedì Twitter, e giovedì YouTube e Facebook, nel tentativo di rendere invisibile quel dissenso che al mondo stava diventando evidente e per evitare che la Rete potesse essere un modo significativo di auto-organizzazione.
La rivoluzione non la fa il web. La fanno le persone, ci ricorda Jillian C. York, perché il web non è garanzia di partecipazione e azione: «I also think it’s a bit irresponsible of Western analysts to start pontificating on the relevance of social media to the Tunisian uprising without talking to Tunisians». Come twitta Alaa Abd El Fattah: «hey frigging american analysts how about we let tunisians, who actually lived what happened decide how relevant twitter and wikileaks where?». Eppure non possiamo negare che «non c’è tentativo di rivoluzione che non sia stato accompagnato da un significativo tasso di conversazione sulla rete e nello specifico su siti di social network come Facebook e Twitter». Sarà per questo che il governo egiziano nella notte tra il 27 e il 28 gennaio ha chiuso l’accesso a tutta Internet e sconnesso la telefonia cellulare, dopo aver oscurato e censurato martedì Twitter, e giovedì YouTube e Facebook, nel tentativo di rendere invisibile quel dissenso che al mondo stava diventando evidente e per evitare che la Rete potesse essere un modo significativo di auto-organizzazione.La rivoluzione non la fa il web. La fanno le persone, ci ricorda Jillian C. York, perché il web non è garanzia di partecipazione e azione: «I also think it’s a bit irresponsible of Western analysts to start pontificating on the relevance of social media to the Tunisian uprising without talking to Tunisians». Come twitta Alaa Abd El Fattah: «hey frigging american analysts how about we let tunisians, who actually lived what happened decide how relevant twitter and wikileaks where?». Eppure non possiamo negare che «non c’è tentativo di rivoluzione che non sia stato accompagnato da un significativo tasso di conversazione sulla rete e nello specifico su siti di social network come Facebook e Twitter». Sarà per questo che il governo egiziano nella notte tra il 27 e il 28 gennaio ha chiuso l’accesso a tutta Internet e sconnesso la telefonia cellulare, dopo aver oscurato e censurato martedì Twitter, e giovedì YouTube e Facebook, nel tentativo di rendere invisibile quel dissenso che al mondo stava diventando evidente e per evitare che la Rete potesse essere un modo significativo di auto-organizzazione.




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